venerdì 19 ottobre 2012

Quando l'ingiustizia regna sovrana, "Carcere a Vita"

UPDATE: Solo per oggi sabato 20 ottobre, download gratuito su Amazon Kindle.

Germil sta mettendo i bambini a letto quando due individui suonano il campanello. Lo informano che devono trarlo in arresto e lo portano in un carcere su un altro pianeta. Germil esce dalla propria cella, un antro scavato alla roccia, solo per recarsi alle udienze dove nessuno gli spiega di cosa è accusato. È anche costretto a sottoporsi alle attenzioni della direttrice del carcere, una donna spietata e animata da desideri perversi. L'unica voce amica nel carcere controllato da robot freddi ed efficienti è quella di Narios, il compagno di cella, che fa di tutto per ricordare a Narios chi è e da dove proviene. Ma le cure della direttrice fanno svanire in Germil persino la memoria della propria famiglia e lo spingono a compiere un gesto estremo.

Questa è la sinossi del terzo racconto della collana Energie della Galassia, Carcere a Vita, pubblicato da poche settimane esclusivamente su Amazon Kindle.
Eccone l'inizio.

Carcere a Vita

Sono innocente. È quello che molti dicono di sé in questo luogo dimenticato dagli dei. Io però lo sono veramente. Vorrei urlarlo nel vuoto di fronte a me, ma la mia voce si perderebbe tra quella di migliaia di altre.
Sono in un antro scavato nella roccia. Di fronte a me l'enorme voragine ingoia grida, lamentele e dolore. La prigione è un immenso buco che sprofonda nel terreno per decine di chilometri. Lungo le pareti sono scavate le celle. Dentro ci siamo noi.
Ci sono centinaia di robot che si muovono senza sosta, come api lungo le celle di un alveare. Portano cibo in compresse, prelevano i carcerati, ne portano di nuovi. I malcapitati sono trasportati sulle piattaforme, piccoli dischi volanti di qualche decina di centimetri di diametro. Mantenersi in equilibrio evitando di cadere è la prima prova di sopravvivenza. Quando qualcuno si perde nel vuoto, nessuno sa che fine faccia.
Non esistono spazi comuni, né ore d'aria. Per ognuno esiste solo la cella, le sbarre, i robot, un compagno e le voci nella penombra.
Lui si chiama Narios. Dorme e vive nella branda sotto la mia. Ognuno di noi ha un armadietto, un tavolo e uno sgabello. Abbiamo un oloproiettore nell'angolo in alto a destra delle sbarre. A fianco c'è l'unica luce fioca che combatte l'oscurità della cella. Al di là di una porticina ci sono un lavandino e un wc.
Questa ora è la realtà dove vivo.



Quando sono arrivato sulla piattaforma volante sorretto dalle braccia di due robot ai miei fianchi, Narios dormiva.
Non avevo idea di come fosse fatto un carcere e in vita mia non avevo mai conosciuto dei detenuti.
I robot mi hanno lasciato sul pavimento della cella. Ho sentito il rumore metallico e spettrale delle sbarre che si chiudevano dietro di me. Ho cercato di distinguere le forme di fronte ai miei occhi. Il letto era sulla parete sinistra e su di esso il carcerato dormiva con la testa in direzione dell'ingresso. Ha tirato su con il naso e si è voltato, infastidito dal rumore.
Le mie uniche nozioni su questo mondo erano quello apprese dagli olomovie, dove i criminali si massacrano l'un l'altro in continue risse.
Si è alzato e mi si è avvicinato.
Era più grande, alto e grasso di me, con pochi capelli e la barba non fatta da circa una settimana. Vestiva una tuta da carcerato blu scuro logora e piena di rattoppi.
“Ciao, io sono Narios.”
“Ciao, mi chiamo Germil.”
“Prima volta qui?”
Cosa intendeva? Certo che per me era la prima volta. Non avevo mai fatto nulla di male in tutta la mia vita, neppure rubato una caramella.
“Sì, certo” gli risposi.
“E cosa hai fatto?”
Non sapevo cosa rispondergli. Ancora non ero stato informato del perché mi avessero portato lì.
“Ero a casa, di sera. Stavo mettendo a letto i bimbi.” Mi sono fermato. Ripensare a loro mi ha fatto sentire un intenso dolore al cuore. Poi ho continuato. “Mia moglie lavava i piatti. Io ho lavato i denti ai piccoli, gli messo il pigiama e ho iniziato a raccontargli una storia. Ho sentito suonare il citofono e ho chiesto a mia moglie di aprire. L'ho sentita rispondere a delle voci maschili. Poi ho sentito i passi di diversi individui entrare in casa mia. Ho dato il bacio della buonanotte e sono andato in soggiorno. Ho trovato due individui seduti ad aspettarmi, con altri cinque in piedi. Mia moglie era pallida e mi guardava preoccupata. Uno dei due sul divano mi ha mostrato un tesserino di appartenenza alla sicurezza nazionale e mi detto che dovevo seguirli senza fornirmi altre spiegazioni. Ho rassicurato mia moglie, dicendole che sicuramente si trattava di un malinteso e che sarei tornato presto. Non avevo idea di cosa volessero da me. Mi hanno condotto sulla loro navicella. Una volta a bordo mi hanno informato che per ragioni di sicurezza avrebbero dovuto farmi addormentare. Quando mi sono svegliato mi stavano sbarcando su questo pianeta. Mi hanno detto che per i crimini commessi sarei stato rimasto in stato di fermo in attesa del processo. Poi due robot mi hanno fatto salire sulla piattaforma che mi ha portato in questa cella.”
Terminato il racconto, la voce mi tremava. Ancora non riuscivo a rendermi conto che stesse accadendo proprio a me.
Narios mi aveva ascoltato senza interrompermi. “Hai fatto qualche cazzata?” mi ha chiesto in tono neutro.
Qualche cazzata? Vivevo un'esistenza semplice e innocua. Ogni giorno mi recavo al lavoro nella centrale energetica solare. Al termine del mio turno tornavo a casa dalla mia famiglia. Con loro passavo insieme i fine settimana in barca su lago a osservare gli uccelli, fare bagni nell'acqua e giocare sulle isolette.
“No, sono un ingegnere. Non faccio altro che lavorare e stare con la mia famiglia.”
La cella ha cominciato a girarmi intorno. Mi sono dovuto appoggiare ad una delle sbarre del letto.
“Tieni, siedi, accomodati.”
Narios mi ha sporto uno dei due sgabelli. “Magari hai fatto incazzare qualcuno?”
“Mah... non credo di avere nemici. Può esserci tuttalpiù qualche collega con il quale vado meno d'accordo, ma non ci sono mai stati problemi.”
“Capisco. Senti. Ci sono alcune cose che devi sapere.”
Così Narios ha iniziato a spiegarmi le semplici regole di vita in carcere.
Non si esce mai, per nessun motivo, tranne quando si viene chiamati per le udienze ai processi. Ci si lava con l'acqua del lavandino. Quando si lavano gli indumenti si rimane nudi. Il cibo viene somministrato in pillole. I carcerati si occupano della pulizia delle celle. Si può chiacchierare, consultare gli olobook di cui siamo dotati, scrivere, fare esercizi quali flessioni, piegamenti e addominali, pensare e dormire.
Se non ce la fai più non è difficile forzare le sbarre delle cella per spiccare un bel salto nel vuoto e finirla lì.
Il carcere si chiama Varcoria e si trova su Plezis III. E' una prigione tanto semplice quanto perfetta. La fuga è impossibile. Non rimane altro che la cella o la morte, la vita o il suicidio.



Trascorrono i giorni, tutti uguali. Sono compresso in una routine senza fine: mangiare, dormire, lavarsi, leggere, chiacchierare.
Narios mi racconta di sé.
“Mi sono fatto beccare con qualche chilo di stupefacenti. Mi facevo e spacciavo. Quando esco di qui non vedo l'ora di tornare a farmi con un po' di plezis puro.” Sembra che la roba gli manchi davvero.
“Ma da quanto sei qui?” gli chiedo.
“Vent'anni...”
“Cosa? Stai scherzando? Ma come si fa a passare vent'anni in questo posto? Dopo qualche giorno ti sembra già di impazzire...”
“Il momento più difficile” mi spiega “è quando arrivi a metà pena. Non so perché, ma in quel momento si ha un crollo psicologico. Forse è il pensare a tutto quello che si è vissuto qui e sapere di averne ancora altrettanto.
Si vive aggrappandosi ad ogni piccolo dettaglio. Vedi, il tuo arrivo, ad esempio, è un evento. Hai sentito che quando sei arrivato dalle celle a fianco alla nostra mi hanno chiesto se fosse tutto a posto? Gli ho detto di sì e da giorni tutti si interrogano su chi sei e sul perché sei qui. Ripensano a quando ti hanno visto passare sulla piattaforma davanti alle loro celle, al tuo aspetto, alla tua espressione.
Sembrano piccole cose, ma qui sono tutta la vita.”
Ascolto incredulo le sue parole. Narios sembra un animale in gabbia. Si muove con una disinvoltura e una naturalezza che mi mettono a disagio. Sembra trovarsi nel suo mondo, a casa sua. Mi spaventa vederlo così adattato a questa realtà. Mi rendo conto che dopo vent'anni non potrebbe essere altrimenti.
“Ogni tanto qualcuno di noi sbrocca” mi dice “e noi cerchiamo di aiutarlo. Il compagno di cella in genere fa di tutto per tenergli su il morale. I vicini danno consigli. Ma a volte ti chiudi in te stesso e non ne esci più. Tutto perde di significato. Non vedi più la fine e il salto nel vuoto ti sembra una liberazione. Quando qualcuno di noi se ne va, non parliamo di altro per settimane.”
Le chiacchiere sono l'unica cosa che questa gente ha. Le voci da un cella all'altra sono un brusio incessante.
In cella c'è un oloproiettore su cui trasmettono decine di migliaia di canali di ogni tipo. Mi piacerebbe ogni tanto guardare qualche film o dei notiziari, ma quando iniziamo la visione di qualcosa a Narios in genere dopo un po' viene voglia di parlare. Sembra non riesca a mantenere la concentrazione su qualcosa a lungo. Chissà che in questo periodo non sia solo eccitato dalla novità della mia compagnia!
“Ti aspettavi così la vita in carcere?” mi chiede un giorno.
“Bèh... conoscevo quello che vedevo negli olomovie – tante scene di violenza e sopraffazione e le spettacolari fughe di prigione.”
“Ogni tanto qualche compagno di cella che se le dà c'è, ma per lo più qui le gente cerca di tenersi su di morale. In quanto alle fughe, arrampicarsi su una parete è impossibile. Ci sono centinaia di robot che sciamano su e giù tutto il tempo. Se qualcuno è tanto folle da provarci non fa più di qualche metro prima di essere beccato.”
Varcoria è tanto semplice quanto perfetto.
Gli racconto della mia vita e del mio lavoro. Cerco di tenermi sul vago, senza informazioni precise su dove vivo o in quale centrale solare lavori. Dagli olomovie ho imparato che non si danno mai dati troppo precisi su di sé quando si è in carcere.
“Tu non sei un delinquente. Io quelli come me li conosco. Tutti qui dicono di essere più o meno innocenti, ma sappiamo chi lo veramente. Tu non sei come noi. Non appartieni a questo luogo. Vedrai che ti faranno un po' penare in attesa del processo, poi, quando andrai all'udienza, spiegherai chi sei e dopo qualche giorno ti faranno uscire.
A volte vogliono solo essere sicuri che se sai qualcosa non gli fai perdere tempo e quando te lo chiedono vuoti subito il sacco. Se prendono uno come te e lo sbattono qui dentro, sono sicuri che dopo qualche giorno di inferno gli spifferi tutto.”
Parla con sicurezza. Vent'anni di questa vita sembrano avergli fatto capire come funziona la giustizia. Vorrei avesse ragione.
Alla mia famiglia cerco di non pensare. Quando non riesco ad allontanare il pensiero, il cuore mi sembra scoppiare. Per loro deve essere ancora più difficile che per me. Almeno io so che sono vivo, che sto bene e che posso resistere. Mi chiedo come sappia, Sofia, mia moglie e come faccia a resistere. Cosa avrà raccontato ai nostri figli? Sicuramente gli starà dicendo che sono via per lavoro. A volte l'azienda organizza delle trasferte per dei corsi di aggiornamenti. Sono le uniche occasioni in cui mi separo da loro.
Vorrei tanto poterli riabbracciare presto!
Rifletto senza sosta su quello che dirò all'udienza. Voglio spiegare bene quale è il mio ruolo alla centrale, cercando di essere il più chiaro ed esaustivo possibile su ogni dettaglio. Il giudice deve capire che non ho mai fatto nulla di male.
Ne parlo con Narios. “Io ti credo. Quando capita qualcosa mettono dentro un mucchio di gente. Quando poi trovano chi è stato, fanno uscire gli altri.” Fa una pausa. “Tu non centri un cazzo con il carcere. Quando ci avranno capito qualcosa, te ne tornerai a casa.”
Mi sembra un meccanismo perverso eppure ora sarei pronto ad accettare qualsiasi condizione pur di tornare a casa. Mi vengono però mille dubbi. E se il motivo per il quale sono qui dentro non fosse legato a qualcosa accaduto alla centrale? E se qualcuno mi accusasse ingiustamente per coprire sé stesso? E se avessi senza accorgermene fatto veramente qualcosa di sbagliato?
Se sbatti un innocente in carcere gli fai venire il dubbio di essere colpevole.
Mi ricordo che quando ero alle scuole elementari un compagno di classe aveva sporcato il muro con dei colori pastello. Interrogato dalla maestra aveva puntato il dito nella mia direzione. Io non avevo neppure capito cosa fosse accaduto, ma avevo dovuto subire i rimproveri.
Dopo qualche giorno un robot si avvicina alla mia cella e mi chiama a colloquio. Mi alzo e mi avvicino alle sbarre con il cuore che mi scoppia. La paura di ricevere qualche brutta notizia mi terrorizza.
“La tua udienza è fissata di fronte al giudice Artis Majioris tra due giorni, il 27 ottobre 2127” dice il robot con tono neutro.
Per ore non faccio altro che ripensare alle diciotto parole dell'automa.



Mi ripeto incessantemente quello che vorrei dire all'udienza.
Arriva il giorno. In bagno mi preparo con cura. C'è un piccolo specchio un po' rotto. Passo il pettine in dotazione sotto l'acqua del lavandino e aggiusto i capelli biondi finché la piega è perfetta. Mi rado. I miei occhi azzurri osservano la mascella pronunciata. La rasatura è impeccabile. Peccato che il giudice non sia una signora! In circostanze normali eserciterei un certo fascino.
Aspetto l'arrivo dei robot seduto sullo sgabello. Narios, per distrarmi, mi racconta del suo lavoro, quello ufficiale. Era un cuoco – anche molto bravo, a suo dire. Non riesco a concentrarmi più di tanto sulle sue parole, ma mi fa piacere sentirlo al mio fianco.
Due robot, con una piattaforma vuota tra di loro, arrivano in volo e si fermano di fronte alle sbarre della cella, che si aprono automaticamente. Mi alzo e avanzo verso di loro. Una volta sul vuoto mi giro vero la cella. Sento le loro mani afferrarmi per le braccia per evitare che possa cadere. Silenziosamente iniziamo a muoverci vero l'alto e il centro della voragine.
Guardo i visi dei carcerati di cui ho solo sentito le voci per giorni. I loro occhi sono fissi su di me. Sanno che nelle prossime ore mi giocherò la vita.
Gli altri robot si muovono senza sosta davanti alle celle. Portano con sé gli scatolotti che contengono cibo e medicinali. Alcuni accompagnano altri detenuti che hanno negli occhi lo stesso sguardo incredulo e spaventato che immagino di avere anche io. Le sequenza delle celle si perde nell'oscurità, in alto e in basso.
Dopo qualche minuto scorgo un quadrato della parete di circa centocinquanta metri per lato perfettamente liscio. Al centro c'è un'apertura, un breve corridoio e una porta metallica. Siamo diretti lì.
Superata la porta, camminiamo in un lungo corridoio con pavimento, muri e soffitto metallici. Superata una secondo porta entro in una stanza circolare di circa venti metri di diametro.
Pareti, soffitto e pavimento sono bianchi. Al centro vedo una sedia.
“Accomodati. L'udienza avrà luogo tra tre minuti” mi informa uno dei due robot. Mi lasciano solo. I programmatori dell'intelligenza artificiali di questi automi gli hanno concesso dono della sintesi, penso con un sorriso amaro.
Mi dirigo al centro della sala. Mi siedo e aspetto.
Pavimento e muri scompaiono. Sono al centro di un'aula di tribunale. Conosco questa tecnologia. E' un tipo di realtà virtuale dove lo scenario intorno è una proiezione e gli oggetti sono ologrammi. E' indistinguibile da un luogo reale, a meno che non si cerchi di toccare gli oggetti.
L'aula è vuota. Dopo diversi minuti entra il Giudice. E' giovane, capelli scuri, corti, con la riga a destra. Consulta un olobook. “Buongiorno” mi dice, senza alzare lo sguardo. Nella sua aula, penso, sicuramente compaio anche io come un ologramma.
“Sono Artemio Geracis. Sono qui per registrare la sua dichiarazione. Vuole procedere?” Artemio Geracis? E chi è? Dov'è il giudice Artis Majioris? Esamino l'individuo di fronte a me, ha l'aria di essere un passacarte.
Mi faccio forza. “Buongiorno Giudice. Ero stato informato che l'udienza si sarebbe tenuta in presenza del giudice Artis Majioris.”
Errore, l'ho sicuramente infastidito con la mia domanda. E infatti me lo fa notare. Alza lo sguardo con sufficienza. “Il Giudice non può essere presente a questa udienza a causa di altri impegni. La sua dichiarazione gli sarà inviata telematicamente. Proceda pure.”
“Domando scusa, ma durante il periodo di detenzione non sono stato reso edotto circa le cause della stessa. È possibile avere maggiori informazioni sul motivo del mio incarceramento?” Mi sembra ora di avere un atteggiamento formale e pulito. La mia è una richiesta più che ovvia. In teoria non dovrei averlo innervosito di nuovo.
“Senta, non è mio compito fornirle informazioni di questa natura. Io sono qui per la sua dichiarazione. Se non intende procedere, riporterò che ha preferito astenersi.”
Sono terrorizzato. La situazione ha assunto contorni assurdi e surreali. E' un sogno o uno scherzo? Intanto il passacarte alza il capo e mi punta con lo sguardo, spazientito.
“Giudice, posso nominare un avvocato che mi assista?”
“La sua assistenza legale sarà demandata ad un avvocato d'ufficio, il cui nominativo sarà comunicato alla sua famiglia. Tuttavia, non le sarà consentito comunicare con il suo legale per questioni di sicurezza.”
Sicurezza? Ma in che casino sono capitato? Non so né di cosa sono accusato, né chi sarà il mio avvocato e devo fare una dichiarazione su non so che cosa.
Mi sento mancare, ma mi faccio forza e racconto chi sono e cosa faccio, quali sono le mie mansioni al lavoro, chi frequento. Evidenzio come non ci siano zone d'ombra nella mia vita. Tento di dare un quadro completo. Provo a capire dalla sua espressione se sono stato convincente.
“Ha terminato?” In effetti, non ha espressione.
“Sì” annuisco con la testa.
L'aula scompare. La stanza circolare torna ad essere bianca. Si apre la porta dietro di me. Mentre mi gira la testa, sento i robot di nuovo al mio fianco. Il pensiero della cella nella quale probabilmente sto per tornare mi fa venire voglia di vomitare.  

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